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La gravidanza e la nascita di un figlio, si sa, portano a cambiamenti fisici e psicologici nelle neo mamme. Ma l’evoluzione ha voluto che anche ai neo papà accadesse qualcosa di molto simile: fin dall’antichità, il maschio è biologicamente programmato per difendere la prole, procacciare cibo nutriente per la compagna in dolce attesa e trovare metodi alternativi per conciliare il nuovo equilibrio familiare dopo la nascita.
Questo ha significato due cose per i neo papà di tutti i tempi: da un punto di vista biologico, il loro cervello è predisposto a modificarsi nel momento in cui il nascituro viene al mondo. Da un punto di vista culturale, invece, i neo papà hanno necessità di dare un significato al loro nuovo ruolo all’interno della famiglia.
Modifiche cerebrali
Ossitocina e testosterone
Diverse ricerche hanno riscontrato che in tutto il mondo i cervelli dei neo papà rilasciano una quantità di ossitocina maggiore alla media (ci si riferisce agli studi di Rilling del 2014, di Gettler nelle Filippine del 2011, di Pilyoung Kim del 2014, dell’Università di Bar-Ilan, 2012).
Questo ormone, definito dalla prof.ssa Rebecca Turner “l’ormone dell’amore” nonché “la colla di tutti i legami emotivi umani”, è il motivo per cui aumentano le palpitazioni quando si è di fronte alla persona amata: è infatti il responsabile dell’attaccamento relazionale, è presente in tutti i mammiferi e la sua produzione è stimolata da contatti fisici affettuosi o dalla vista di persone care e bambini piccoli.
I neo papà, oltre a conoscere un incremento della produzione di tale ormone, vedono diminuire anche la quantità di testosterone durante il primo anno di vita del bambino. Questi eventi consentirebbero nell’uomo di aumentare il grado di empatia, la propensione alla cura e al senso di protezione: fondamentali per la sopravvivenza della famiglia.
Zone del cervello e ossitocina
Gli uomini che diventano papà sviluppano la capacità di interpretare i diversi tipi di pianto e di reagire in modo appropriato (soprattutto tra le 12 e le 16 settimane) proprio come le neo mamme. Questo perché entrambi sviluppano sentimenti di empatia e cura verso i figli ma, come dimostra lo studio dell’Università di Bar-Ilan, mentre nelle donne si attivano le zone interne del cervello legate al nutrire e alla rilevazione dei rischi, l’uomo risponde ai bisogni dei figli usando le zone più esterne, legate alla pianificazione, all’orientamento agli obiettivi e risoluzione dei problemi. Significa che nella donna l’ossitocina si attiva quando si prende cura dei figli, mentre nell’uomo lo stesso avviene quando gioca con loro.
È stato inoltre dimostrato che nei piccoli il rilascio dell’ormone avviene in contemporanea al suo rilascio nell’organismo del genitore. Ovvero i bambini sono “biologicamente felici” quando giocano con il papà e quando la mamma li nutre. Un continuo contatto tra papà e neonato, quindi, significa un aumento del benessere sia del genitore che del figlio.
Secondo Anna Machin:
il cervello dei papà sembra essersi adattato in modi simili ma diversi per garantire che possano legarsi e prendersi cura dei loro bambini.
Culturalmente parlando (di neo papà)
La famiglia patriarcale tradizionale
Secondo il professor F. Baldoni dell’Università di Bologna, il sistema nervoso del maschio si modifica stando a contatto con il neonato, è vero, ma ritiene che sia qualcosa di molto recente: con il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella mononucleare, la rete di supporto di una famiglia è venuta meno e, di conseguenza, i padri si ritrovano più coinvolti nella cura dei figli, mentre una volta questa era compito esclusivo delle donne della famiglia. Donne che adesso hanno spesso un impiego, che vengono (come i mariti) da famiglie con pochi parenti e che, soprattutto, non si percepiscono più come casalinghe dedite esclusivamente alla crescita dei figli.
Il ruolo del padre cambia perché è più coinvolto nella quotidiana crescita dei figli ma, allo stesso tempo, si riscontra una crescita dei suoi disturbi affettivi soprattutto nel primo anno di vita del figlio. Disturbi spesso legati alla rabbia e all’ansia che in Australia hanno portato alla creazione di un vero e proprio servizio di assistenza per i neo padri. Probabilmente in Europa non esiste niente del genere perché siamo ancora troppo legati allo stereotipo dell’uomo forte che non ha bisogno di aiuto.
Gelosie paterne e sindrome di Couvade
Nonostante la comunità scientifica sia ancora divisa circa la verità o falsità della teoria di Freud nota come “l’invidia del pene”, c’è meno disaccordo sul fatto che i papà provino almeno un po’ di gelosia quando non sono loro a sentire il bambino scalciare. Non nel senso che vorrebbero essere loro a gestire una gravidanza, ovvio, ma quanti papà si sono sentiti “tagliati fuori” dalla diade mamma-bambino? Quante volte hanno pensato di essere degli estranei per quel nascituro che, sebbene sia sangue del loro sangue, potrebbe passare le prime settimane a piangere quando viene preso in braccio o anche solo guardato dal suo papà? Certo, non accade sempre così, ma è innegabile che la mamma abbia un rapporto speciale con quel figlio che ha portato in grembo per nove mesi, che ha nutrito col suo stesso cibo, per il quale ha anche rinunciato a qualche pratica prima tanto usuale e gratificante per farlo nascere sano.
Come emerge dalle parole di S. Grilli in Antropologia delle famiglie contemporanee, in una coppia genitoriale:
ogni padre deve adottare simbolicamente la vita del figlio, non avendo sperimentato la fisicità della gravidanza e del parto.
Il padre è colui che è legato al bambino per via genetica, pertanto non si sentirà mai completamente estraneo a quel bambino che in qualche modo gli somiglia. Tuttavia un senso di esclusione c’è soprattutto quando la neo mamma partorisce e allatta: momenti unici di estrema intimità.
Per far fronte a questa gelosia, molte culture tribali sono ricorse (seppur con modalità differenti) ai cosiddetti riti della couvade (dal francese incubare, far nascere, covare): rituali con cui il padre partecipava alla gravidanza, azioni che andavano dall’evitare certi cibi e certe azioni fino a fingere le doglie. Nei casi più estremi, i futuri padri presentavano addirittura gli stessi sintomi della moglie gravida o in travaglio (da cui la “sindrome della couvade”).
Erano tutti atteggiamenti che consentivano al futuro padre di identificarsi con la mamma e il figlio e non solo per non sentirsene escluso, ma anche per sottolineare il ruolo importante che anche il padre ha nella creazione del bambino e nella protezione della famiglia. Era un atto di “creazione del padre” come oggi può esserlo il partecipare a corsi pre-parto o adoperarsi per rendere la casa sicura e accogliente per il nascituro.
Nelle società tribali la couvade serviva perché la paternità non è un dato naturale allo stesso modo della maternità: è un costrutto sociale e, pertanto, serviva imitare ruoli e funzioni femminili per crearla.
Essere padre oggi
Come detto sopra riguardo alla nuova conformazione famigliare, anche i padri di oggi si trovano a fare i conti con una paternità diversa da quella a cui sono stati abituati.
Essere padre oggi risente certo dell’influenza storica e culturale (come è sempre stato) ma con un vantaggio che in passato non si aveva: riconosciuti i ruoli tradizionali e svelati i pregiudizi, i papà di oggi sono liberi di prendere spunto dai modelli che preferiscono (che siano vicini o lontani, nel tempo o nello spazio) senza che ci sia un’etichetta a cui conformarsi per forza.
Dimostrato che essere autoritari non è una garanzia per crescere figli in gamba, riscontrato che non è la mamma l’unica fonte di affetto incondizionato per il bambino e che i NO vanno detti da entrambi i genitori, finalmente cade il peso dell’essere “capofamiglia”: un papà che ama giocare e prendersi cura del proprio figlio sarà un ottimo papà, non un mammo.